Giorgio Re

I GLABRI A RISCHIO DI ESTINZIONE?

Titolo provocatorio ovviamente. Diverso dai precedenti questo nuovo capitolo di Fashion Fil Rouge. Non si racconta né di moda né di storia della moda. Il focus cade invece sull’attitudine da parte dell’uomo di incorniciare il proprio volto con barba e baffi. Una propensione che, in saecula saeculorum, ha conosciuto alti e bassi, ma che, innegabilmente, vive ora convinta stagione di fioritura. Si parte da un postulato, al di là delle alterne fortune di questo vezzo che , in verità, è sempre stato molto più che un vezzo. Da sempre barba e baffi sono considerati manifestazione di mascolinità, “valore” che ne riassume tanti altri: prestanza, avvenenza, abilità guerriera, autorevolezza, potere, saggezza.

Nell’antichità la presenza di barba e baffi sui volti maschili risponde a regole sociali ben codificate. Nell’Atene classica la comparsa della prima peluria è il punto di svolta nei rapporti omoerotici, considerati portanti nel percorso di formazione di ogni uomo. Non appena si manifestano tracce di baffi, il giovane cessa di essere “eromenos”, l’adolescente amato, protetto e istruito alla vita dal maschio adulto, o “erastès”. Più pragmatici, occupati a conquistare una provincia dopo l’altra, i Romani prediligono i visi glabri. Si concedono al massimo barbe corte e curate. E in generale associano la barba a chi  non deve imbracciare le armi, in special modo ai saggi, ai filosofi, ai pensatori.

La liaison tra barba e saggezza, ovvero talento, è un leit motiv che percorre la storia di ogni civiltà: da Socrate a Confucio, dai Padri della Chiesa a Karl Marx, da Leonardo da Vinci a Michelangelo, da Lev Tolstoj a Ho Chi Minh. Anche se talora risulta ben labile il confine tra saggezza e fanatismo. Basti pensare a personaggi inquietanti della fatta di Rasputin. Si è detto quanto il mondo romano-latino disdegni barbe e baffi incolti. Ma poi arrivano i barbari, quelli veri. E da allora sin quasi all’Età dei Lumi è un profluvio di peluria. Non si è uomini se non si ha il volto incorniciato da barba e baffi.

Vale per imperatori e monarchi – Carlo Magno, Federico Barbarossa, Ivan il Terribile, Enrico VIII -, per guerrieri ed avventurieri – i pirati inglesi e i conquistadores spagnoli -, per nobili e borghesi benpensanti – quelli severi, ritratti dai pittori fiamminghi del XVII secolo. Superato l’Illuminismo, era in cui tutti i grandi si propongono glabri – da Federico il Grande a Re Sole, da Voltaire a Kant  – quasi a rappresentare l’uomo nuovo, la Restaurazione riporta in auge quantomeno i baffi. Da quelli superbi dei sovrani e governanti – Francesco Giuseppe I, Napoleone III, Vittorio Emanuele II, Bismarck – a quelli più moderati di magnati e capitani d’industria, sino a quelli curatissimi dei dandy ritratti da John Singer Sargent o Giovanni Boldini.

I geni assoluti – dello stampo di Giuseppe Verdi o Claude Monet – possono ancora vantare barbe discretamente fluenti. Al presente, o quasi: la Prima Guerra Mondiale ristabilisce i vantaggi del viso glabro. Chi per quasi cinque anni deve sopravvivere nel fango delle trincee tra fango e pidocchi, non può curarsi anche di barba e baffi. Ed è glabro, in buona parte, il Ventesimo secolo. I miti di Hollywood che optano per i baffi – Clark Gable o William Powell – lo fanno per aggiungere un tocco di malizia al loro fascino. Si ricredono i Sessantottini, in spregio all’ordine borghese.

Le loro barbe sono quelle di Fidel Castro e ancor più di Che Guevara. I baffi rimandano all’epopea western alla Wyatt Earp. I “moustache” sono anche eponimo di trasgressione,  accompagnano l’emancipazione omosessuale, quantomeno nelle sue espressioni più popolari, come insegnano i Village People. Ed ora? Nessun timore per i glabri. Non corrono alcun rischio d’estinzione. Ma è vero che barbe e baffi popolano oggi le nostre strade di… “not so ordinary guys”…

L’esemplare di maschio dotato di barba e baffi più affascinante di tutta la storia, a parere di chi scrive? E’ Thor Heyerdahl, l’antropologo-biologo-esploratore norvegese che nel 1947 attraversa il Pacifico con il Kon Tiki, “Figlio del Sole”, la sua imbarcazione primordiale costruita e messa in per dimostrare  l’ipotesi secondo cui popolazioni Sud-Americane avrebbero colonizzato la Polinesia in epoca pre-colombiana. Alto, slanciato, ieratico come un bramino indiano, impeccabile come Lord Mountbatten, disinvolto e per nulla artefatto nella sua avvenenza (in questo senso gli Scandinavi hanno ben poca dimestichezza con l’artificio), temerario come un Vikingo, acuto e profondo di spirito come uno studioso della scuola alessandrina. Giorgio Re

Risk of extinction for hairless men? … Continua a leggere →

LUCHINO VISCONTI: LO STILE ASSOLUTO. NON SOLO NEL CINEMA.

A sessanta anni dal debutto “Senso” – forse uno dei sui film più riusciti ed anche tra i più discussi, poiché fornisce – intaccando un tabù – un quadro del Risorgimento dipinto non con le sole tinte dell’epopea dei “buoni contro i cattivi”, è necessario riformulare una duplice domanda: chi tra i fashion designer di oggi non deve qualcosa al Conte Luchino Visconti di Modrone? Chi non ha mai guardato ai suoi film, ma anche alle sue regie teatrali, nell’ispirarsi? Avrebbe potuto essere egli stesso un grande couturier. Forse però si sarebbe sentito limitato nel creare “solo” abiti, per quanto splendidi.

La sua arte presupponeva un nutrimento che include musica, letteratura, conoscenza dell’arte e della storia. Cultura, in una parola. Come dovrebbe essere in verità –  e per fortuna talora lo è – per i grandi stilisti, quelli degni essere considerati tali. Certamente Visconti si può avvicinare ai creatori di moda di maggior talento: per il suo perfezionismo – tanto ossessivo quanto appassionato -, per la sua ricerca del “bello assoluto”, per la cura spesa in egual misura sia per un abito sontuoso, quello più adeguato a caratterizzare il personaggio e a definire il climax della scena, che per il dettaglio, non necessariamente legato all’abbigliamento: il candelabro, i tendaggi, le piante su un terrazzo.

FFR racconta di moda maschile. Ma è imprescindibile esimersi da uno sguardo alle infinite e sublimi letture che Visconti ha offerto del glamour al femminile. Da Alida Valli, appunto, in “Senso” a Claudia Cardinale ne “Il Gattopardo”, da Silvana Mangano in “Morte a Venezia” e in “Gruppo di famiglia in un interno”, da Romy Schneider in “Ludwig” – una Sissy matura, lontana mille miglia da quella zuccherosa delle pellicole di Ernst Marischka  – a Ingrid Thulin ne “La Caduta degli dei “.

Ma il talento inarrivabile del regista si esplica non solo nel rendere iconiche figure del mondo a cui apparteneva per nascita, censo, educazione e forma mentis. Giunge agli stessi risultati con le donne del popolo. Con una Clara Calamai abbrutita dalla vita in “Ossessione”, con la popolana Anna Magnani di “Bellissima” – intensa e sfolgorante  di dignità nel suo modesto tailleur nero -, con Annie Girardot prostituta che porta un banale trench direttamente sopra la sottoveste.

Assolutamente speculare è ciò che il “Conte Rosso” compie al maschile. Tant’è che la sua lezione si legge più forte ed affascinante che mai in non poche collezioni Uomo contemporanee. Anche in questo caso la panoramica sarebbe infinita, enciclopedica. Si pone la necessità di evidenziare i richiami viscontiani più espressivi delle ultime stagioni. I rimandi sono così numerosi da rendere indispensabile procedere in ordine sparso.

Il minimale blouson-camicia di Bottega Veneta con i profili in contrasto  richiama da vicino il pigiama che Marcello Mastroianni ha indossato da co-protagonista di “Morte di un commesso viaggiatore”, in scena al Teatro Eliseo nel 1951. Il blouson “motard” con gli inserti frontali animalier di Saint Laurent gioca di rimando con quello da teddy-boy nostrano, sfoggiato da Corrado Pani in “Rocco e i suoi fratelli”.

La camicia fitted con le tasche applicate e ridotte nelle dimensioni di Valentino è quella di Marcello Mastroianni ne “Lo Straniero”: straniero a tutti gli effetti, alla deriva in un mondo che non è il suo e che pure ama. Il dimesso dolce vita a coste di Alain Delon offre la sponda, non solo per la neutralità del colore, al prezioso girocollo a trecce di Malo. Dall’essenzialità all’ opulenza: la vestaglia dell’ormai perduto tenente Franz Mahler-Farley Granger di “Senso” rivela una foggia del tutto identica al coat etnico-tribale di Paul Smith.

Il cappotto asciutto total black di Diesel Black Gold, pur acceso da zip ed applicazioni, fa pensare alla severità da gentiluomo di altri tempi dei completi di Burt Lancaster ne “Il Gattopardo”. I broccati dannunziani “fin de siecle” delle vesti da camera di Giancarlo Giannini ne “L’innocente” ritornano, attualizzati, nelle giacche di Dolce & Gabbana. Esattamente come la “grandeur” decadente del mantello foderato di pelliccia di Helmut Berger in “Ludwig”, ripulita e più pacata, ma non per questo meno preziosa, nel cappotto full lenght di Dior Homme. E non vi è dubbio che lo straordinario messaggio di eleganza viscontiano – vero e proprio progetto di stile universale – si potrà leggere ancora a lungo. Per sempre, forse. Come la vera arte. Giorgio Re

 

Luchino Visconti: the absolute style. … Continua a leggere →

BAD, BAD BOYS

Harrison Ford, il buono di “Blade Runner”, deve vestirsi come i cattivi per avere la meglio; idem come sopra per Tom Cruise nella saga di “Mission Impossible”. L’eccezione che, come sappiamo, “conferma la regola” è  Mads Mikkelsen/Le Chiffre in “Casino Royale”. E’ impeccabile e sofisticato nello stile tanto quanto Daniel Craig, ma Le Chiffre cattivo è e cattivo resta. E’ innegabile che il fascino – un po’ stereotipato ma sempre in auge – del pensiero “gli uomini che mascalzoni” susciti più di un palpito nei cuori femminili e maschili (di quei maschi a cui piacciono i maschi, s’intende):  da sempre e ovunque, la canaglia  piace.

La musica popolare spagnola, per esempio, rigurgita di “coplas” dedicate a fascinosi banditi che hanno i loro covi nelle Sierras – disseminandole di amanti e aspiranti tali – ed è pressoché scontato che i bandoleros a un certo punto vengano acciuffati e sbrigativamente spediti alla garrota, lasciando in lacrime torme di fanciulle. In sintesi: l’immaginario collettivo pullula di figure di riferimento “in negativo” con un loro appeal irresistibile benché fuorilegge. Lo stesso discorso vale per la moda Uomo dei nostri giorni, secondo variazioni sul tema ampiamente articolate nel segno della fluidità che permea oggi sia lo stile che l’approccio al vestire.

Nella costellazione “bad glam” riveste un ruolo primario l’eroe alla Matrix, techno-vestito, ovviamente in nero totale. I suoi look anticipano un futuro prossimo venturo delineato con abbondanti dosaggi di fantasia. Textures e conformazioni rendono possibile ogni performance: si possono affrontare ghiacci eterni, temperature degne dell’inferno di Dante, laser perforanti. Vengono sfidate persino la legge di gravità: Mission Impossible, appunto. Lontano mille miglia dal prototipo Matrix è il cattivo divenuto tale per malasorte più che per malvagità d’animo. Ha la giustizia contro, ma conosce il significato della parola sentimento e sa amare. E’ una figura in equilibrio tra il delinquente e il perseguitato. Anche per questo piace. E non si può non perdonare.

Nelle nostre contrade una volta si chiamava guappo o picciotto, ma in verità è una figura universale. Può venire dal Bronx, dal Mid West impoverito dalla Grande Depressione, dalla Parigi impietosa alla Jean Gabin, come dai bassifondi di Buenos Aires. A dire il vero il suo guardaroba è un po’ male in arnese, ossia si articola intorno al must della canotta che mette ben in evidenza muscoli imprescindibili ed eventuali tatuaggi. O meglio, spesso c’è solo la canotta che in genere è anche un po’ sdrucita. Ma tant’è: lui è comunque un’icona. Negli orizzonti nostrani il capostipite di questo cattivo dal cuore d’oro e dai tanti scrupoli è il bellissimo, tormentato Massimo Girotti di “Ossessione”, primo eroe neorealista, che finisce sulla cattiva strada per la perfidia della donna amata.

La galassia dei malvagi prevede anche i trasgressori, quelli che giocano volutamente con l’ambiguità, o quelli per cui il fisico prestante è oggetto da esibire. Dunque toraci nudi in abbondanza con immancabili collane, collanine e bracciali a corredo che danno vita ad una “fiera delle vanità” del Terzo Millennio, agli antipodi rispetto al romanzo di Thackeray dal titolo omonimo, richiamando, seppur con un ampio grado di disinvoltura, l’epopea degli hippy che andavano in India, in Nepal, in Afghanistan  a ritrovare se stessi.

Se invece il cattivo è ambiguo non può non guardare al mondo del rock, a Ziggy Stardust in primo luogo, e non può non luccicare di bagliori dorati o argentati. C’è anche il cattivo che sembra perbene? Domanda difficilissima, quasi senza risposta. C’è forse il “non proprio cattivo” incredibilmente smaliziato che ostenta nonchalance e pare non curarsi delle mode, ma che, se ben osservato, rivela l’ossessione per il particolare che rende il capo tutt’altro che scontato. Ed insieme al capo chi lo indossa. Altra versione de “La fiera delle vanità” edizione 2014. Giorgio Re

 

Harrison Ford, the hero in “Blade Runner”, … Continua a leggere →

ESISTENZIALISMO IN PROGRESS

Non si tratta semplicemente di un dolcevita nero. L’esistenzialismo, a cui la moda Uomo di queste stagioni pare volersi richiamare, non è solo una questione di look, è molto di più: rimanda a quel grande fenomeno culturale che fu un momento decisivo nel mutamento degli orizzonti spirituali per il mondo intero e per quello Occidentale in special modo. A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dal momento della Ricostruzione materiale e civica dell’Europa, finalmente i giovani hanno voce in capitolo, quantomeno nelle metropoli europee, a Parigi in primo luogo, ma anche nelle grandi città tedesche ancora in macerie. Anche perché la generazione precedente è stata decimata dal conflitto e si ritrova disorientata. Passa la staffetta a chi ha vissuto la catastrofe da bambino e prova un desiderio forte di aria nuova, un bisogno incontenibile di cambiamento radicale nel modo di concepire la vita.

L’Esistenzialismo vanta padri nobili. Sul piano della filosofia, della letteratura, della musica, del teatro, del cinema. Ed antenati non meno illustri. Tra i primi: Jean Paul Sartre e Karl Jaspers, Albert Camus, Juliette Greco e Jacques Brel, Eugene Ionesco, Ingmar Bergman. Tra i secondi: la Scapigliatura milanese e i “poètes maudits” francesi di fine ‘800. Può essere interessante anche il parallelismo, quantomeno in termini di aspirazioni, con la “beat generation” americana, da Kerouac a Ginsberg. Stesso, prorompente anelito di libertà, di rottura, di anticonformismo, di ribellione, di trasgressione. Un parallelismo che però non è totale: gli Esistenzialisti vivono tutto ciò in modo più…estenuato, smaliziato, malinconico, carico di  maggiore “ennui”. In una parola, in  modo più europeo. Manca la sintonia anche in fatto di stile. I “giovani ribelli” d’Oltreoceano si accontentano di tagliarsi un po’ meno spesso i capelli, abbondano nell’uso di camicie a scacchi da rodeo del Mid West, di jeans più che sdruciti, di giacche di velluto informi, vagando per il Paese su enormi automobili malconce.

Europei d.o.c., gli Esistenzialisti sanno invece elaborare un proprio lessico vestimentale. Nelle “caves” parigine, valgono codici estetici ben precisi. Sono inediti, ma ci sono. E sono imperativi. In alternativa alla camicia vengono sdoganati i pullover portati a pelle: dolcevita o meno, neri o meno, anche se questo non-colore prende piede e si svincola dall’uso esclusivo per la sera, la cerimonia e il lutto. Così come vengono sdoganati il montgomery o il raincoat più corto e più facile rispetto al trench tradizionale. Le ragazze possono finalmente indossare i pantaloni anche in città, non solo sulle piste da sci. Le giacche possono essere “fitted” o “loose”, ma appaiono sempre un po’… pre-decontracté, per nulla “stiff”. Chi osa maggiormente adotta la tuta, quasi da cosmonauta sovietico, a testimonianza della volontà di guardare al futuro prossimo venturo. Certamente, gli Esistenzialisti  non resistono all’appeal dei jeans e dei blouson che arrivano dagli States, ma li integrano con cura nel proprio lessico. In parallelo, si impone lo scooter che diventa il mezzo di trasporto giovane per antonomasia in un continente intero. In barba ai macchinoni “made in USA”.

Giungendo al presente, è facile notare come l’essenzialità di sapore esistenzialista di molte collezioni Uomo risulti felicemente compenetrata dall’hi-tech. Perché essenzialità vuol dire anche comfort e vestibilità più agevole, garantiti dalle nuove elaborazioni materiche, dall’ottimizzazione delle textures nella loro resa, nelle loro performance e nelle loro possibilità di impiego. In sintesi: ora nel menswear l’esistenzialismo si coniuga senza stridori con una sorta di …futurismo. Del resto, la moda da sempre pensa in progress e vive di commistioni, per questo gli “ismi” convivono pacificamente. Facendo della moda stessa qualcosa di davvero unico, costantemente in divenire. Giorgio Re

 

It’s not only a black … Continua a leggere →

CHI PORTA I PANTALONI? DECLINAZIONI TRA MASCHILE E FEMMINILE

Natura docet. E’ il leone, e non la leonessa, ad avere una criniera sontuosa. E’ il pavone maschio a sfoggiare una ruota dalla bellezza strabiliante. Si è già detto che “la vanità è uomo”. Ma lo sfaccettato rapporto tra il vestire al maschile e quello al femminile va ben oltre questa considerazione. Si tratta di una relazione da sempre bidirezionale, scandita da interscambi, commistioni, condivisioni di fogge, tipologie e materiali. E’ più facile cogliere ciò che la donna, a partire dall’inizio del ventesimo secolo ha “rubato” all’uomo in fatto di abbigliamento. Nel nome sacrosanto dell’uguaglianza e dell’equiparazione. I pantaloni sono l’elemento più scontato, non certo l’unico.

Ad essi si affiancano il completo da lavoro – il tailleur in tessuti e fantasie maschili – magari ingentilito. E ancora, la camicia dal taglio severo, che i signori completano con la cravatta e le signore sbottonano un poco ed ingentiliscono con un foulard o un gioiello. L’apoteosi probabilmente si raggiunge grazie a Christian Dior. Mentre i grandi d’Europa ricostruivano il continente dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, lui ricostruiva il glamour dopo gli anni delle privazioni e lo consegnava al presente.

Ma lo ha fatto ricorrendo, appunto, anche a textures e disegnature tradizionalmente da uomo – lane “secche” gessate, a Principe di Galles, a pied de poule – con cui ha realizzato persino abiti da sera incredibilmente sontuosi. Ed indiscutibilmente femminili, donanti, sensuali. Più sottile, ma non meno intrigante, è la lettura di ciò che è accaduto in direzione opposta. Si può capire che cosa l’uomo ha fatto proprio attingendo al vestire femminile? Sicuramente sì. Avendo però presente che la barriera tra i due guardaroba è un dato relativamente recente. Risale all’inizio del diciannovesimo secolo, con l’affermazione del ceto borghese ed una codificazione dei canoni dello stile tanto rigida quanto la morale pubblica ufficialmente stabilita – non sempre privatamente praticata – dalla nuova classe dominante.

Sino ad allora abbigliamento maschile e femminile avevano viaggiano in parallelo, se non in sovrapposizione. Dall’antichità a tutto il Medio Evo, donne e uomini si coprivano con tuniche e mantelli. Le tuniche potevano avere o non avere le maniche, potevano essere fermate in vita da una cintura, potevano essere più o meno lunghe. In sintesi: cambiavano i dettagli, ma non certo la foggia di base. Più tardi, dal Rinascimento all’era napoleonica, le tipologie un po’ si diversificano. Compaiono i pantaloni, a metà coscia prima, al ginocchio poi. E sono gli uomini a portarli.

Ma al di là di ciò, qualcuno può stabilire se fossero più preziosi i ricami, le applicazioni di pietre preziose, gli intarsi che arricchivano gli abiti di Enrico VIII o quelli di Elisabetta la Grande? Quelli di Luigi XVI o quelli di Madame du Barry? Senza parlare delle acconciature, della cascate di pizzi, nastri, volants, ruches usati in profusione al maschile come al femminile. Ora abbigliamento maschile e femminile si sono reciprocamente “ritrovati”. L’uomo riscopre l’uso del colore per esempio, dopo oltre un secolo di grigio, marrone, blu, nero… Non ha più paura di mostrare il corpo e, con esso, la propria sensualità, anche nel vestire formale, strizzando ben bene il cappotto o il trench, come fa la donna.

Scegliendo giacche con tagli, revers ed abbottonature che “segnano” il torso nei punti-chiave, vita e spalle in primo luogo. Indossando maglie fluide che non sono più dei semplici “sotto giacca”. Del resto, qualcuno oggi trova strano che un uomo porti un twin set? Osando con gli accessori, dalle cinture ai cappelli. Non rinunciando più a ricami e lavorazioni non solo sulle camicie, ma anche sui capi-spalla. L’uomo continua a portare i pantaloni. Questo è certo. Ma sa benissimo che da quasi cento anni li porta anche la donna. Giorgio Re

Dettagli di foto di Norman Parkinson ricavate dal volume “Parkinson Photographs 1935-1990” di Martin Harrison.

 

Who wears trousers? … Continua a leggere →