Giorgio Re

GENTLEMEN IN TECHNICOLOR

Ai signori uomini colori e fantasie sono sempre piaciuti. Ne hanno fatto a meno per secoli, volendo invalidare i diktat, sfarzosamente caleidoscopici, in fatto di eleganza che l’aristocrazia imponeva dall’alto e dunque per attestare il primato della nuova classe leader. Le “stravaganze” cromatiche hanno conservato uno spazio, ma assai limitato, nei dettagli: panciotti, cravatte e pochette. Del resto, le “altre” culture – indiana, o cinese, o giapponese – non hanno mai rinunciato al colore, per motivi che prescindono dalla vanità, rimandando invece a ragioni di rappresentanza, ruoli ricoperti nelle gerarchie di potere, classi di appartenenza.

Tutto ciò valeva nell’Europa pre-borghese: colore uguale potere, ma anche ricchezza e sua ostentazione. Tingere le stoffe, con le sole risorse disponibili un tempo – quelle naturali – un tempo era costosissimo, dunque nel Basso Medio Evo e nel Rinascimento i farsetti a più tonalità, come le calzamaglie a bande, erano privilegio di pochi. Si è già parlato del connubio tra moda e arte, che rimanda a pieno titolo anche ad un rinnovato gusto per il colore, in relazione alle avanguardie del primo ‘900: Futurismo, Dadaismo, Costruttivismo. 

Lo stesso si può dire del cinema: basti pensare a capolavori come “Blow up” o “Arancia Meccanica”. Ma va aggiunto che un inno vero e proprio al technicolor è arrivato con la Pop Art, con le esperienze di Roy Lichtenstein e di Andy Warhol – che generano poi quella di Basquiat e non ignorano quella precedente di Matisse -, con le loro dosi ben calibrate di “sberleffo” (pensiamo ai ritratti di Mao by Warhol), di aderenza ad una visione del mondo più disinvolta, ma anche con un’abilità nel gestire in modo inedito la relazione tra arte da un lato e potere in costante crescita del marketing, produzione di massa e approccio consumistico all’arte stessa dall’altro. 

E qui si giunge a sfiorare un ambito che vale la pena di focalizzare: il potenziale ludico, in verità senza tempo, del colore. Pensiamo agli attori delle commedie di Plauto, ai guitti delle compagnie girovaghe, ai giullari, ai clown, alle figure della carte da gioco, per arrivare, nel secolo passato, ai personaggi dei cartoon. I fumetti sono diventati presto arte e cultura insieme, una cultura facile, “popolare” se vogliamo, fruibile senza difficoltà. E’ un mondo popolato di eroi che garantiscono identificazione ed evasione insieme, appealing perché invincibili, ma anche perché coloratissimo ed immediato nella sua potenzialità di attrazione.

L’elenco dei modelli di riferimento è infinito. C’è innanzitutto la sterminata produzione di Walt Disney o di Hanna & Barbera (insuperabile il look di Fred Flintstone…), ma c’è, soprattutto, l’esercito dei “buoni in uniforme”: Capitan America, Superman, Batman e Robin. In uniforme sì, ma sempre multicolore, tanto improbabile quanto irresistibile. Senza scordare il surreale, impareggiabile gioco di colori dell’italianissimo Jacovitti. 

Il presente parla la lingua della pluralità, con facoltà di esercitare il libero arbitrio da parte di chi sceglie uno stile piuttosto di un altro. Colori,fantasie, disegni ci sono e sono graditi. Con un valore aggiunto da non ignorare: quello dell’ironia e del divertissement personale nel vestire. Talvolta, soprattutto in passerella, tutto è un po’ “osato”. Nulla però è diktat. In altre parole, continuano ad essere eleganti un bel cappotto cammello e/o un completo a Principe di Galles. Ma neppure questi ultimi sono obbligatori, neppure per un un meeting di lavoro. Non solo: il neo-technicolor ha spezzato la dittatura minimalista/modaiola del nero tout court. Garantendo flessibilità e opzioni di mix interessanti: la giacca caleidoscopica si può portare sulla maglia o sul pantalone monocolori e viceversa. Ci pare poco? Giorgio Re

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SHAKESPEARE IN STYLE

Con Cristopher Marlowe, William Shakespeare è il testimone più acuto ed insieme il più raffinato cantore dell’ascesa dell’Inghilterra. Compiuta la riforma anglicana, ridimensionato con forza poderosa il pericolo spagnolo, realizzata un’alleanza – nel complesso solida – tra monarchia, aristocrazia e classe borghese-mercantile, a cavallo tra l’era di Enrico VIII e quella di Elisabetta I, nel regno oltre Manica inizia “The Golden Age”.

L’Inghilterra entra a pieno titolo nel novero delle grandi potenze internazionali. La dinastia Tudor porta il Paese a confrontarsi alla pari con i nemici di sempre, Spagna e Francia, ma anche con il Portogallo, l’Impero germanico, l’Impero ottomano, gli Stati italiani, in breve con il G8 di allora. E’ chiaro che l’accresciuto prestigio del regno offre terreno fertile al boom delle arti. Tra le varie figure in campo, quella di Shakespeare è quella che che sa esprimere al meglio l’apoteosi appena raggiunta.

Il figlio del guantaio e conciatore di Stratford Upon Avon, destreggiandosi con talento fra tragedia e commedia, è l’uomo giusto che fa la cosa giusta nel momento giusto: non solo lancia l’Inghilterra nell’Olimpo delle nazioni con una produzione artistica di valore universale, ma anche e soprattutto “dipinge” un grande passato per la nuova grande potenza. Senza dubbio interpretandolo, adeguandolo al gusto dell’epoca – nonché al bisogno di grandeur del neonato Impero -, accostandolo al passato di altre realtà, la Danimarca di Amleto ed in particolare la Roma antica di Giulio Cesare, di Coriolano, di Marco Antonio, di Tito Andronico.

Sia chiaro: nelle sue opere, il passato remoto o prossimo dell’Inghilterra non è edulcorato tout court. Calibrandoli in giusta dose, Shakespeare mette in scena non poche virtù ed altrettanti vizi dello status ante quo: coraggio guerriero, fierezza, spirito indomito, ma anche congiure, intrighi, persino follia. Vale per “Re Lear”, “Macbeth”, “Enrico IV”, “Riccardo II” e così via. Senza perdere di vista, come si è detto, altre dimensioni, anche a lui contemporanee, come nel caso di “Otello” o de “Il mercante di Venezia”.

Riservando tuttavia all’ Italia – secondo un luogo comune ampiamente diffuso e persistente nei secoli – il ruolo di scenario perfetto per situazioni idillico-arcadiche – nel “Sogno di una notte di mezza estate” – o comunque per l’amore, felice o infelice, ma in ogni caso infarcito di equivoci, da “Molto rumore per nulla” a “Romeo e Giulietta”. La rappresentazione di questo mondo così composito ha nel teatro shakespeariano il suo luogo deputato.

Ciò fa di questa esperienza qualcosa di democratico ante-litteram, anche per quanto riguarda lo stile, il modo di vestire: a differenza di quanto accade nella Francia delle tragedie di Corneille o di Racine, a Londra anche il popolino, insieme alla nobiltà e alla stessa Corona, trepida per la sorte di Giulietta o di Desdemona e ride delle baruffe delle “Allegre comari di Windsor” o della “Bisbetica domata”.

Al contempo osserva cosa indossano eroi ed eroine. Il palcoscenico è in qualche modo anche passerella, luogo in cui non solo si racconta una storia, ma anche si propone uno stile che fa presa sul pubblico. Secondo una dinamica bidirezionale: la moda inglese dell’epoca – che guarda a Parigi o alle corti italiane – sale al palcoscenico e dal palcoscenico discendono ispirazioni che condizionano il gusto, soprattutto a corte o nei circoli nobiliari. In un’epoca in cui la concezione filologica del costume di scena è ancora di là da venire, Amleto, Giulio Cesare oppure Otello vestono non tanto diversamente dal Duca di Buckingham, da Sir Francis Drake, dal conte di Leicester, il favorito della Regina Vergine.

Allo stesso tempo, le pellicce barbare alla Re Lear, le armature alla Enrico IV si rispecchiano nelle pellicce e nelle armature dei nobili britannici. Non meno dei mantelli tartan alla Macbeth, per quanto viscerale sia la rivalità tra Inghilterra e Scozia. Evidentemente anche allora la moda misconosceva le frontiere spazio-temporali. Cosa che nel tempo non è affatto mutata. Conclusione? Lo stile ed i richiami “Cool Britannia” a cui ben pochi stilisti di oggi sanno resistere deve parecchio a quella primordiale passerella che è stata il teatro shakespeariano. God save the style. Giorgio Re

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GENTLEMAN’S PORTRAIT

Pur da inguaribile cinefilo, chi scrive riconosce alla macchina fotografica una capacità di sicuro più nobile e sofisticata di quelle che può sviluppare una cinepresa nel catturare la bellezza, l’eleganza, l’appeal di uomini e donne nel modo in cui essi si rappresentano attraverso il vestire. Una capacità che è stata e continua ad essere praticata anche quando è applicata  alla moda maschile. Questa straordinaria potenzialità vale, in primo luogo, per la fotografia d’autore, quella dei grandi protagonisti di una pratica che ha tutte le carte in regola per essere definita arte, sommando in sé abilità tecnica ed estro, talento e slancio, obiettività e senso per la fascinazione, lettura oggettiva ed interpretazione.

E’ corretto affermare che i grandi fotografi di moda abbiano contribuito a costruire lo stile contemporaneo, assolvendo ad un compito che segue immediatamente quello del creatore per importanza e rilievo. La fotografia di moda è “l’occhio” della moda stessa. E’ la dimensione in cui l’eleganza giunge al pubblico, nelle immagini pubblicitarie come in quelle redazionali, ma anche in immagini che non sono strettamente “di moda” e che possono essere definite, in senso generale, ritratti, di personaggi noti ovvero di persone comuni, in cui comunque si focalizza l’identità – innanzitutto estetica, ma non solo – del soggetto prescelto. Senza contare che la moda, in estrema sintesi, è sostanza ed immagine  insieme.

In altri termini: la moda vive nell’immagine e in essa trova, come si è detto sopra, il suo punto d’arrivo. L’idea di un abito nasce nella mente del creatore e compie un lungo percorso, che passa dal progetto fissato spesso in uno schizzo, dal prototipo, dal capo proposto prima in passerella e poi in vetrina, sino alla fotografia che è un po’ il punto di snodo e di raccordo insieme tra “tutto ciò che viene prima” ed il prodotto che giunge nella strada, viene indossato perché reso desiderabile proprio grazie allo scatto che lo rappresenta e sul quale tutti noi ci basiamo per orientare le nostre scelte.

Per quanto attento all’estetica un regista possa essere – un nome per tutti, Luchino Visconti -, il fotografo ha bisogno di maggiore impegno per cogliere l’essenza dell’eleganza. L’approccio ad essa è forzatamente diverso. Rispetto al primo, il secondo ha il vincolo della staticità. Il regista può raccontare, per esempio, la bellezza di una giacca mentre l’attore la indossa o la toglie, mentre balla, magari mentre abbraccia la partner per baciarla, valendosi anche del mutare delle luci e delle atmosfere. Il fotografo deve esprimere tutto ciò in uno scatto fisso, suggerendo il medesimo grado di appeal con mezzi differenti. E’ chiaro che contano anche in questo caso luci, pose ed ambientazioni.

Ma lo scatto fisso resta uno scatto fisso. Deve concentrare e condensare emozioni in un’unica immagine, in grado di far sognare tanto quanto una serie di fotogrammi di una pellicola. Tutto deve essere colto in un singolo attimo. Forse è una tesi azzardata, ma, considerato quanto esposto sin qui, può essere sensato affermare che nella fotografia, continuando a ragionare in parallelo con il cinema, è più intensa e più profonda l’interazione tra l’abito e chi lo indossa, in altre parole tra il “cosa” e il “chi”. Del resto l’eleganza non si esaurisce nell’esteriorità. Viene da dentro, dal fascino personale, dal carisma, dall’intelligenza dell’individuo.

Fatta salva la qualità del prodotto, sono queste le doti che portano l’individuo stesso a vivere il capo in una certa maniera, così da renderlo iconico, da creare uno stile, un modo di interpretare la moda che di volta in volta può essere severo o disinvolto, sobrio o eccentrico. Questo spiega perché non pochi modelli di riferimento per il fascino maschile non sono uomini necessariamente attraenti, né legati in esclusiva allo star system.

In questa logica, ha senso allargare un po’ la panoramica e considerare anche i “non addetti ai lavori”: i fotografi che non si occupano affatto di moda e che magari non hanno un nome né conosciuto né riconosciuto, ma che sono riusciti a fissare in uno scatto lo stile autentico, quello di uomini, di personaggi pubblici forse inconsapevolmente eleganti, anche nel senso più diretto del termine, ma soprattutto ricchi di qualità interiori. Al punto da lasciare un segno nella storia e da occupare un posto di rilievo nell’immaginario collettivo. Giorgio Re

 

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SPORT OR SPORTY?

Sin dagli albori dell’era mediatica, lo sport, al pari del cinema e della musica, costituisce un serbatoio straordinariamente ricco di modelli di riferimento per lo stile. I grandi campioni si contendono l’attenzione del pubblico accanto ad attori e rock star. Non pochi di loro diventano vere e proprie icone. E’ un fenomeno globale. Non mancano differenziazioni e peculiarità locali.

Se in Italia nessuno può pensare di scalzare i calciatori dal sempiterno primo posto nella hit parade del gradimento, in Spagna persino i più titolati giocatori del Real Madrid o del Barcelona devono ancora vedersela con i toreador, contendendosi copertine e presenze in TV. La stessa cosa accade in Austria, in Svezia o in Norvegia, dove alcuni sciatori raggiungono lo status di eroi nazionali. E’ pur vero che esistono sportivi per i quali l’ammirazione è planetaria: i piloti di Formula Uno oppure i tennisti, per limitarci a due esempi immediati.

Nel rapporto tra idoli sportivi e loro fan un aspetto è fondamentale. A questi ultimi dei campioni interessa…tutto, complice in ciò il potere dei media. Non solo le prestazioni in campo, sulle piste da sci o sui circuiti automobilistici, ma anche la vita, le bravate e naturalmente il look, non solo e non tanto quello legato all’attività sportiva, che del resto non può prescindere dal tipo di disciplina praticata né, tantomeno, dal principio dell’uniforme, o meglio, dell’uniformità, perché sia immediatamente visibile l’appartenenza ad un club o ad una formazione nazionale.

Senza troppi giri di parole: ciò che l’eroe sportivo indossa nel suo tempo libero fa comunque moda. E la moda – che da sempre si nutre di ciò che accade nel mondo, dei cambiamenti che lo animano, dei fenomeni sociali  che lo muovono – non può non tenerne conto. Va anche ricordato che da sempre la moda contemporanea guarda allo sport in senso stretto, facendo proprie fogge, materie e tecniche per rielaborarle nelle collezioni che segnano il susseguirsi delle stagioni. Un meccanismo del tutto analogo lega i look che si vedono in passerella e quelli dei campioni “in libera uscita”. Si potrebbero menzionare decine di esempi e perdersi così in un ginepraio di riferimenti.

Ma questo nuovo capitolo di Fashion Fil Rouge preferisce richiamare l’attenzione su un elemento del guardaroba che avvicina davvero tanto lo stile “free time” degli sportivi a quello proposto dai fashion designer. Si parla del blouson. Dallo sport allo “sporty”, si potrebbe dire. Senza mai perdere di vista la funzionalità, la versatilità e lo spirito disinvolto, valenze proprie di questo capo, in effetti già sdoganato dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando inizia ad entrare a far parte del vestire comune, perché ammirato addosso ai piloti della R.A.F. o della U.S. Air Force.

Forse per assuefazione alla praticità dei capi indossati nella pratica sportiva, i campioni si mostrano spesso in giubbotto anche nel tempo libero. Si potrebbe azzardare un’ipotesi: almeno sino a qualche decennio fa, per sentirsi sempre e comunque sportivi, i vari tennisti, piloti, sciatori, calciatori propendevano con naturalezza al blouson come capo scontato del loro look. Con una buona serie di variazioni sul tema.

Juan Manuel Fangio si accontentava di un semplicissimo giubbotto di tela, forse cerata, non tanto diverso da quello che indossava al volante. George Best, nei suoi anni d’oro, si poteva permettere un tocco personalissimo, tanto da rivaleggiare con Elton John, David Bowie e i Rolling Stone come emblema di eleganza new british. Da buon nordico, Björn Borg, non risparmiava in fatto di colori vivaci, in ciò non allontanandosi troppo dai costumi di scena degli Abba. Tutto quadra: nelle collezioni di oggi abbondano i blouson che fanno pensare a quel mondo. E non è difficile ritrovare leit motiv comuni tra i giubbotti di allora e quelli griffati di oggi.

Perno di questa assonanza  è senza dubbio la ricerca del comfort come dato genetico di base, ottenuto con il ricorso a materie differenti – techno-textures, pelle, lana -, quasi sempre sommate le une alle altre, ora ottimizzate con lavorazioni e finissaggi un tempo impensabili, senza scordare che spesso al mix materico corrisponde l’opposizione cromatica tra le diverse parti del capo. Conclusione? A chi, quando indossa un giubbotto, non piace sentirsi un po’ un… campione in libera uscita? Giorgio Re

 

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LEISURE AND THE CITY

Questo nuovo capitolo di Fashion Fil Rouge si propone di avere uno sviluppo un po’ differente rispetto ai precedenti. In altre parole: ferma restando la prospettiva storica si parte da una considerazione relativa alla moda maschile di ora per poi valutare a ritroso le connotazioni dell’eleganza di un tempo, evolutesi secondo processi ben precisi sino ad essere parte integrante di quella presente.

L’assioma, in verità, è un po’ lo stesso di sempre. Da un determinato momento in poi le barriere tra codici, funzioni ed occasioni d’uso delle varie tipologie del vestire Uomo si allentano, quando non si annullano del tutto, per costruire in un nuovo modo di concepire ed utilizzare la moda, molto più libero, fluido, non legato ai diktat e/o ai doveri di rappresentazione sociale, bensì alla personalità e all’individualità. Grande conquista, va ribadito, raggiunta dopo secoli e secoli di codificazioni imprescindibili e vincolanti.

Al dunque: è  innegabile che la moda Uomo di oggi sommi e mescoli tra loro canoni propri del vestire da città – o da lavoro – con elementi un tempo presenti unicamente nel vestire leisure, quello riservato alla vacanza, o quanto meno al tempo libero, con risultati interessanti. Dato tutt’altro che ovvio sino non molti decenni fa. Il concetto di vacanza nel senso contemporaneo del termine nasce, a grandi linee, con la Rivoluzione  francese e quella industriale, ovvero con l’avvento al potere della borghesia, che scopre sia il mare che la montagna come luoghi preposti allo svago.

Diversamente dai secoli precedenti, lavorare ed avere successo nella professione diventa motivo d’orgoglio. Ancor prima, sino all’Ancien Regime, chi stava al vertice della scala sociale, l’aristocrazia, non lavorava – al massimo faceva la guerra – e quando nei mesi più caldi si ritirava nelle tenute di campagna continuava… a non  fare nulla,  praticando tutt’al più alla caccia, in sostanza facendo la guerra agli animali anziché agli esseri umani. Chi invece lavorava  “davvero” – commercianti ed artigiani, per non parlare dei contadini – di sicuro non andava in vacanza.

Per formazione mentale ed attitudine morale, la nuova classe leader si sente però in dovere di sottolineare, anche nello stile,  la separazione tra le ore dedicate alla professione –  con relativa, seriosa “uniforme” composta da giacca, gilet e pantalone in tonalità più che sobrie – rispetto a quelle riservate al relax, concedendosi in questi momenti linee e fogge più facili, così come colori più “di respiro”. Concedendosi maggior disinvoltura, ulteriormente accentuata nel caso dei giovani e non di rado riferita alla pratica dello sport: polo, golf, tennis, cricket, calcio, disciplina quest’ultima di matrice anglosassone come tutte le altre che però ben attecchisce anche nei Paesi latini.

Arriviamo al presente: dal dopoguerra e più marcatamente negli ultimi vent’anni nel look da città confluiscono prima tracce e poi tipologie vere e proprie attinenti all’abbigliamento da tempo libero. Leisure forever and ever? Certo che no. Ma di sicuro maggiore scioltezza e modulazioni più stimolanti oltre che più libere, anche nella “tenue de ville”.

Partiamo dalla polo che tranquillamente sostituisce da decenni la camicia sotto la giacca senza suscitare alcuno scandalo. Proseguiamo con i bermuda, indossati, quantomeno d’estate, sotto il blazer: un vezzo recente, ma sempre più accettato e visibile. Pensiamo ai pantaloni stropicciati in lino che un tempo si indossavano soltanto al mare con le maglie fantasia morbide e sciolte, oppure con la camicia a maniche corte per giocare a golf.

Arriviamo alle “alpargatas”, le calzature con la suola in corda e la tomaia in tela della stragrande maggioranza degli Spagnoli – un tempo, nonostante la crisi attuale, ben più poveri di oggi, dall’Aragona all’Andalusia, tanto da non potersi permettere altri tipi di scarpe – e che noi chiamiamo alla francese espadrilles, ora tranquillamente abbinate a giacca e pantalone semi-formale. E se non sono espadrilles, possono persino essere sandali… Giorgio Re

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