eticamente

GREEN CARPET IN A PARLOUR

9471596781_e7d9d5a471_bLa Venere degli Stracci, Michelangelo Pistoletto

La marcia trionfale della moda etica approda alla settimana della moda di Milano. “Verde è bello e fashion”, questo l’intento degli organizzatori che hanno deciso di celebrare, domenica 24 settembre, con un red carpet in Piazza della Scala, i magnifici sviluppi di un Made in Italy fulminato dalle sorti del pianeta, come Paolo di Tarso sulla via di Damasco.

E andrebbe anche bene se la decisione non avesse due difetti: è tardiva e reca con sé un’atmosfera da salotto buono che nuoce alla serietà della causa. Un’aria strumentale da coscienza a posto che vuole celare (o no?) i tanti problemi del nostro sistema.

Tuttavia…meglio di niente. Di sicuro a forza di parlarne la gente comincerà a capire che dietro alle sue sneakers low cost ci sono paghe da fame e spesso lavoro minorile, o che il collo peloso dell’eskimo tanto à la page è fatto con la pelliccia di uno sfortunato Fido di altre latitudini.

Ben altro colpo d’occhio, però, aveva realizzato Michelangelo Pistoletto con la sua “Venere degli stracci” nel 1967, una scultura che dovrebbe essere la bandiera della moda etica contemporanea. Arte classica versus vita moderna, questo il senso della statua, ormai 50enne. Grande icona di uno dei problemi più seri del fashion, di certo uno dei più inquinanti, cioè l’eccedenza di produzione.

Per stare dietro a tutte le suggestioni possibili e catturare ogni tipo di consumatore – dal più ricco al più povero – le macchine producono di tutto in continuazione, dando vita ad un percorso perverso che porta, dagli atelier agli outlet e poi alle bancarelle fino ai negozi di seconda mano, montagne di roba che – se non fabbricata – farebbe fare un passo avanti alla tutela dell’ambiente. Un cocktail per parlarne? Luisa Ciuni

 

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COMMERCIALE VS. REALE

falabellaBorsone e zaino Falabella in nylon eco-sostenibile, con rivestimento interno ottenuto da bottiglie di plastica riciclate.

Dalla collezione uomo ss17 Stella Mc Cartney

“Sarà al mentolo l’ultima scoria” cantava Lucio Battisti nel celebre Canto Brasileiro. Era il 1973 e non ci poteva immaginare che anche l’etica della moda sarebbe stata investita da un fenomeno analogo a quello usato per i formaggini: l’uso del marketing ecologico per vendere vestiti, calze e tutto il resto. Perché c’è una certa differenza fra l’elaborazione morale a favore del pianeta e degli esseri viventi, animali inclusi e l’uso di questi concetti in senso commerciale.

Si può obiettare che il risultato finale è buono, cioè la diffusione delle idee e il finale minor impatto sull’ambiente, ma il diritto di restare perplessi rimane, assieme ad un certo stupore fra il dire e il fare delle aziende.

Tuttavia si va avanti a piccoli passi, spesso sperimentali, spesso incerti sul sfondo finale della ricerca di un minore impatto sulla Terra. La Wolford sta mettendo a punto un tessuto ecologico che si dovrà dissolvere nell’ambiente in modo non solo da non danneggiare il verde ma di fondersi con lui. Calze e lingerie d’autore saranno prodotte con un polimero di fibra cellulosica “cradle to cradle”. Ci mangeremo i collant? Spero di no, ma se dovesse diventare utile, ne parleremo.

Riparliamo di Stella Mc Cartney, paladina del cruelty free, che ha dichiarato guerra alla plastica e lavora ad una nuova fibra tessile ricavata dai rifiuti marini. La borsa “Falabella Go”, presentata a Parigi di recente, è di questo nuovo materiale, utilizzato per produrre anche delle sneakers siglate adidas. Secondo la stilista “ ricavare abiti dalla spazzatura sarà un nuovo lusso”. Ci permettiamo di dubitarne, anche se lodiamo le intenzioni. Perché sempre di plastica si tratta, anche se riciclata. Forse sarebbe meglio trovare il modo di usare materiale naturale senza accanimenti e orrori. Forse. Luisa Ciuni

 

“The last waste will be
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CONFUSION IS THE SOLUTION

hmprodLa supermodel Natalia Vodianova testimonial della nuova linea Conscious Exclusive Collection di H&M

Nel mondo della moda etica c’è movimento. E forse anche un po’ di confusione. La corrente più recente chiede un blocco allo spreco, cioè si scatena contro il mercato low cost colpevole – a suo avviso – di generare troppa merce a basso costo, roba del tutto superflua e prodotta in modo inquinante per l’uomo e per l’ambiente. Chi protesta non tiene in alcuna considerazioni gli elementi “democratici” del fenomeno, che fornisce un prodotto passabile a prezzi bassi, levando agli abiti quell’aura di inaccessibilità che avevano fino al secolo scorso. Bene o male? Bisogna tornare al vestito d’élite, inarrivabile per la gente comune, per salvare il pianeta?  Il problema è complesso e non si può risolvere qui ma, in ogni caso, il quesito va posto. E gli interessi in ballo sono tali da non rendere “super partes” nessuno.

La grande distribuzione risponde intanto alle pressioni biologiche con un massiccio impiego di lane e cotone naturali. Il colosso H&M addirittura commercializzando abiti ottenuti dal Bionic, un poliestere ricavato dai rifiuti plastici del mare. Un’intera collezione. Uomo, donna (il bambino si vedrà), testimonial Natalia Vodianova, million dollars baby delle passerelle dove indossa – in genere – abiti costosissimi. Adesso, in un potente crossover, la ragazza porterà alla gloria un fluttuante caftano da pochi soldi, ecologicamente corretto e stilisticamente tollerabile. Un abito “buono” come quelli prodotti da quelle aziende del lusso che curano il refluo delle acque, l’impatto ambientale, le emissioni di CO2 e che pagano a prezzi di mercato la forza lavoro producendo in Italia o in altre democrazie occidentali. Ricaricando i costi sui prezzi del consumatore finale. Di nicchia.

Se si obietta che la forza del prezzo basso è dovuta alla massa di merce commercializzata, si torna alla prima casella, come nel Gioco dell’Oca. Cioè si nota come in confini dell’ecologicamente corretto e di quello scorretto siano labili e passibili di interpretazioni diverse.

Per non lanciare nulla di intentato ci si butta anche sul ricino. L’italiana Freddy ha appena brevettato delle sneakers eco friendly senza plastica a base di un tessuto ricavato dalla pianta dell’amarissimo olio. Per ora da donna, progetto in itinere.

Confusione, si diceva, forse entropia. Perché molte aziende del lusso, intanto, si lanciano a braccia aperte sul mondo dell’arte. Come il virtuoso Brunello Cucinelli. Uno dei pochi imprenditori del lusso che riescano a sposare materia prima di grande qualità, moda, cura delle maestranze e cultura umanistica. Così, se Della Valle ha sponsorizzato i restauri del Colosseo e Prada promuove una mostra alla milanese Fondazione di Largo Isarco per salvare piante ed animali estinti riproducendoli in serra (Extinct in the wild di Michael Wang), Cucinelli si ripropone, più pragmaticamente, di aiutare la ricostruzione dell’Abruzzo. Tutto si muove. Ma la strada è da definire. Luisa Ciuni

 

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ARTIFICIAL VS. NATURAL

complete_processIl ciclo di produzione della fibra Econyl

In principio furono il cotone e la lana. Puri, anzi, purissimi. In omaggio ad un mondo sempre più allergico e sempre più “affamato” di prodotti biologici e non contraffatti, la prima parola d’ordine della moda etica è stata “ritorno alla natura”, con le etichette che garantivano origine e trattamenti rispettosi di pelle e ambiente, diventati oramai un’ossessione. Il consumatore finale ha scelto per anni un prodotto rispetto ad un altro proprio basandosi sull’esclusione netta del sintetico, figlio del petrolio, quindi inquinante, quindi dannoso. Cibo bio, vestiti bio, casa bio: l’inquinamento ambientale non si è mosso di un centimetro ma la morale era salva. Persino la grande distribuzione ha piegato la testa davanti alla richiesta inondando il mercato di puro cotone non trattato e grigiastro o di lana vergine, pungente ma eticamente valida. Poi, la svolta. Davanti alla scarsa performance di molti capi totalmente naturali, l’industria ha iniziato a creare un tessile sintetico che nasconde un’idea vincente: il riciclo. E l’idea è passata. Oggi molte aziende si fanno un vanto di utilizzare filati non naturali. Sia perché aiutano a salvare l’ambiente, sia perché corrispondono a quel concetto di “cruelty free” nei confronti degli animali che si è fatto largo anche nel fashion (Stella McCartney docet), sia perché il risultato finale è oggettivamente buono. Un esempio viene da Econyl, una fibra del gruppo italiano Aquafil nata dalle reti da pesca e da materiali di scarto, che si è fatta strada nel mondo della moda scalandolo fino ai vertici, dagli originari costumi Speedo (per la quale è nata), fino a Levi’s, per approdare poi a Gucci. Che ha annunciato il suo utilizzo per la prossima collezione uomo, una delle più attese dell’anno. Sintetico è bello quindi, specie se l’azienda produttrice certifica che la sua fabbricazione è stata eseguita senza onere per l’ambiente. Tessuti uno e due, come la Signora Morli pirandelliana quindi. Diversi modi di vedere le cose. Di certo una prova di quanto composito sia il mondo di chi vuole aiutare il pianeta passando dalla moda. Luisa Ciuni

SAVE THE DUCK

 slide_1_itIl credo dell’azienda Save the Duck sulla home del sito internet

Una delle puntate di Report di Milena Gabanelli, trasmessa circa due anni fa, ha rivelato agli italiani la crudeltà con cui vengono spiumate le oche per ottenere l’imbottitura dei giacche, cuscini e piumoni. Così, siccome la moda è sempre pronta a seguire l’ultima moda, quello che fino a poco prima era considerato il “non plus ultra” dei capi ecologici, il piumino imbottito, è caduto in rapida disgrazia.Troppo forti le immagini e le urla delle oche per dimenticarle. Fino a ottenere un paradosso: le piume, che sono ovviamente naturalissime, sono state bandite dai fautori della moda “cruelty free”. E sostituite da imbottiture sintetiche, vale a dire di derivazione chimica e quindi, al momento della fabbrica, inquinanti. Timidi tentativi di prendere le distanze da quel video (palesemente girato in Cina) non hanno sortito grandi effetti. E se qualcuno rivendica – e non a torto – la naturalezza di quel calore delicato e uniforme, una parte dei consumatori preferisce lasciarlo perdere a favore di altre soluzioni.
La «Save the Duck», marchio di piumini per uomo, donna e bambino dal nome altamente evocativo, ha risolto uno dei problemi di questi indumenti del «dopo oca» realizzando un’imbottitura altamente traspirante con un brevetto che si chiama Plumtech, realizzato in modo da rispettare anche l’ambiente che ci circonda.
Nel 2014 Save the Duck ha vinto il Vegan Fashion Award attribuito da PETA e quest’anno anche “PETA Innovator for Animals” grazie alla sua speciale tecnologia Plumtech. Luisa Ciuni

Two years ago, … Continua a leggere →