fashion fil rouge

CRUISING STYLING

Quasi ogni brand dedica alla consuetudine della crociera collezioni apposite, in principio pensate soprattutto per gli happy few statunitensi che durante la stagione fredda potevano permettersi una fuga ai Caraibi, evitando così le temperature polari di Chicago o Saint Louis.

Anche a questo proposito la globalizzazione abbatte con il tempo le barriere geografiche. Non a caso la Russia post-sovietica diventa presto un mercato privilegiato per le cruise collection, grazie al formidabile potere d’acquisto maturato dai nouveaux riches, ma anche perchè, in quanto a temperature, Mosca, San Pietroburgo o Ekaterinburg sono ancor meno incoraggianti delle metropoli d’Oltreoceano.

Non solo: una volta privilegio di pochissimi, la crociera si è democratizzata, divenendo accessibile a strati molto più ampi di appassionati. Diventando oggi quasi di massa e praticata in ogni stagione dell’anno. 

Il concetto di crociera, con relativo dress code, nasce in parallelo con l’idea moderna di vacanza: se sino al Settecento per i giovani aristocratici vigeva il dovere del Gran Tour, con l’avvio dell’era borghese diventa legittimo e sacrosanto dedicare il meritatissimo tempo libero – dopo mesi e mesi di virtuosa dedizione al lavoro – allo svago, al relax, al viaggiare, anche all’avventura, così da rigenerarsi dalle fatiche di un anno intero.

In pochi decenni si affermano la villeggiatura al mare o in montagna, e per i più arditi sport come lo sci, l’alpinismo, la vela. Da principio ne godono solo i ceti più elevati e, un po’ tutti i grandi magnati dell’industria, per esempio, si fanno vanto di possedere un panfilo proprio.

Dalla metà del secolo scorso, quantomeno nei Paesi più avanzati, anche per la classe media vera e propria il sogno della vacanza e dunque della crociera diventa realtà, non di rado esibita come uno status symbol. Si sa che l’abitudine all’ordine porta i virtuosi borghesi a pretendere anche per  le settimane dedicate alla crociera codici precisi di eleganza e di buon gusto – nelle collezioni cruise di oggi estremamente diluiti e rimescolati, finalmente riletti in piena libertà -.

Codici senza dubbio più rilassati rispetto a quelli che governano il vestire da città, mediati, quantomeno da principio, da quelli dei privilegiati tra i privilegiati, dai regnanti in primo luogo. 

Fermo restando tutto ciò, è innegabile che il cruise style fa entrare in società non pochi elementi del vestire, che mai più abbandonano il guardaroba Uomo. Alcuni di essi conservano un indiscutibile aplomb, come il blazer, bianco o blu navy. Altri sono ben più sciolti e disinvolti.

In ordine sparso, “fanno cruise” i pantaloni morbidi e un po’ stazzonati, le maglie di cotone a girocollo – rigate e non – , le polo – candide e non – , le T-shirt, il pull a trecce profilato a contrasto, i bermuda, i sandali, gli “over” in tessuto tecnico che protegge dalla brezza, la canotta, quest’ultima caldamente consigliata solo a chi se la può veramente permettere. 

Un po’ lo stesso discorso vale per i colori. Indubbiamente il bianco conserva il posto d’onore, seguito a ruota dal bleu marin. Ma andare in crociera significa viaggiare, dall’Egeo alle Bermuda, innamorandosi di colori e fantasie che nella city londinese, a Wall Street, nelle palazzine dirigenziali delle acciaierie Krupp ad Essen non capita né tantomeno capitava nel 1930 di vedere.

Stiamo parlando di tonalità squillanti e di motivi estranei alla cultura occidentale, che non possono non far sognare la libertà e un po’… di dolce far  niente. Dunque, long live to the cruise style. Enjoy e… aloha! Senza magari arrivare per forza sino alle Hawaii. Giorgio Re

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BLACK MIDNIGHT

Non è mai stato oggetto di discussione, semmai di variazioni sul tema: anche al maschile il nero è IL colore della sera. Allo stesso modo, nelle varie tipologie in cui si sono articolati nel tempo i codici dell’evening style si è sempre concretizzato non solo il massimo dell’eleganza, ma soprattutto il nonplusultra di un aplomb dovuto a forme e costruzioni dei capi, ma anche alla valenza di severità del non-colore per eccellenza.

Il nero è capace di esprimersi con grande versatilità, come dimostrano le interpretazioni che si vedono nelle collezioni di oggi, in cui certi pezzi travalicano non di rado occasioni e funzioni d’uso, emancipati ormai dal vincolo dell’utilizzo serale, un po’ troppo vincolante. E’ scontato affermare che il perno dell’evening dress sia e continui ad essere lo smoking, alias tuxedo, o dinner jacket, come lo si voglia chiamare a seconda di latitudini, longitudini…

Allo smoking ed alle sue interpretazioni è già stato dedicato un capitolo intero di Fashion Fil Rouge. Senza nulla togliere a Sua Maestà lo smoking, è il caso di focalizzare l’attenzione sulle altre, non poche componenti dell’abbigliamento da sera. Se lo smoking è il re, il frac è l’imperatore. Nasce in concomitanza con il passaggio dall’Ancien Régime all’età contemporanea. In concreto altro non è che l’evoluzione della marsina dei secoli XVII-XVIII: si accorciano a spencer le falde anteriori, quelle posteriori si allungano e si stondano, il nero tende a sostituire i colori pastellati che fanno troppo vecchia aristocrazia.

Una sorta di paleo-frac, ancora sovraccarico di decorazioni, è a tutti gli effetti la tenuta di corte dell’era napoleonica. Quasi in contemporanea, l’eccezionale buon gusto, ma anche la lungimiranza di Lord Brummel, che de facto riscrive le regole dell’eleganza, sdoganano definitivamente l’indumento, in tutto l’Occidente e trasversalmente rispetto alle classi sociali, dalla nobiltà alla nuova borghesia. Non muta il fatto che il frac sia un capo da cerimonia. Indossato da sovrani, capi di stato, diplomatici, direttori d’orchestra, è e resta un capo che evoca comunque solennità e rigore, oggi pur stemperati in variazioni più disinvolte.

Di poco più giovane è l’evening coat asciutto, lungo al ginocchio, se non nero comunque di colori profondi, opposto per foggia al paletot ampio più da giorno, di anima britannica. Si indossa sopra l’abito, ma in realtà ha origine da un tipo particolare di giacca, lo stiffelius, già piuttosto lunga, chiamata in italiano finanziera perché indossata dai notabili. E quando lo stiffelius aggiunge all’orlo un po’ di centimetri, finisce per piacere a tutti, anche agli intellettuali, dai romantici inglesi ai poètes maudits che per sfidare il perbenismo lo portano anche sgualcito, aperto sul panciotto o persino sulla camicia bianca oversize.

La stessa poliedricità riguarda il mantello a ruota, quasi sempre di panno, e preferibilmente nero. Nell’Ottocento si chiama tabarro. Lo indossano gli umili, perché riscalda ancor più del cappotto che certo non si possono permettere.. Lo portano i briganti del Mezzogiorno, gli anarchici romagnoli, i protagonisti del demi-monde parigino ritratti da Tolouse-Lautrec, i dandy, ma anche figure che appartengono all’establishment, Giuseppe Verdi in primis.

Vale la pena di spendere un’ultima parola per un’altra, a parere di chi scrive straordinaria, protagonista del vestire da sera: la giacca in velluto liscio. Tagliata come quella dello smoking, ne costituisce una formidabile alternativa, meno impegnativa e un poco più eccentrica. Conosce un boom prorompente negli anni della moda beat. Diventa un must have grazie a Mick Jagger o Malcolm McDowell. E permette lo sconfinamento cromatico: dal nero tout court, al blu notte o al burgundy. Giorgio Re

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VANITY FUR

Lasciamo da parte l’uso simbolico della pelliccia, aspetto che questa rubrica ha già trattato, come esternazione di ricchezza e di potere in saecula saeculorum. Accantoniamo anche le riflessioni sull’utilizzo funzionale – si potrebbe parlare di utilizzo… vikingo – di questo materiale, in grado riscaldare e proteggere dal gelo più di ogni altro, tant’è che in un passato più o meno remoto non vi era sostanziale distinzione tra i sessi nel ricorso alla pelliccia.

Focalizziamo invece la nostra attenzione sulla componente della vanità – propensione di cui i Signori uomini certo non difettano – e, perché no, sulle intenzioni trasgressive che portano il sesso forte ad indossare capi in toto o in parte in pelliccia. Molto spesso vanità e trasgressione si sommano l’una all’altra.

Questo dato è un po’ il caposaldo dell’epopea dandy. Un dato che dunque non ci porta affatto a stupirci nel vedere gentlemen di.tutti i tempi – con Oscar Wilde immancabilmente a fare da apripista – ritratti in sontuosi cappotti di pelliccia. Stiamo parlando sia di dandy “di professione” che di dandy “per vocazione”, come Gunter Sachs, ufficialmente playboy, soprattutto quando si ritrova calato nel ruolo di fidanzato di Brigitte Bardot, la quale si scopre animalista radicale diversi decenni più tardi.

Oppure Helmut Berger, che non indossa pellicce da capogiro solo per interpretare il Ludwig viscontiano: lo fa anche a piacimento suo, memore forse del gelo alpino della sua Kitzbühel, con un intento provocatorio che certo non è solo una prerogativa solo sua.

Non si contano infatti le “wearing fur” rockstar né tantomeno gli attori: da Ringo Starr, forse il più trasgressivo tra i quattro di Liverpool a Paul McCartney, Mick Jagger, Barry Manilow, Paul Stanley dei Kiss.

E ancora: da Clark Gable a Rock Hudson, a Sylvester Stallone, questi ultimi icone indiscusse, quantomeno sul set, della virilità hollywoodiana, che in verità indossano pellicce forse più per esigenze di copione, non di rado con effetti esilaranti, giocando con notevole talento sul filo sottile che separa ed insieme raccorda mascolinità e femminilità.

Vale per Richard Burton, nato povero, figlio di un minatore gallese, che non esita a farsi ritrarre indossando un “fur coat” non tanto dissimile da quello portato dalla donna della sua vita, la sublime Elizabeth Taylor, autentica “Venere in pelliccia”. Ci “cascano” anche gli attori europei, autentici miti nelle rispettive nazioni, da Alberto Sordi a Fernandel.

E, sfoggiando pellicce su pellicce, si arriva sino alla stravaganza che identifica alcuni personaggi prima ancora della loro notorietà o del loro talento artistico E’ sufficiente pensare a Salvador Dalì o a Liberace, che in fatto di “fur glamour” non era certo secondo – né intendeva esserlo – a nessuna diva della Mecca del cinema.

Il primo pratica in verità un’eccentricità pari all’unicità della sua arte, tanto da sdoganare la sua figura ed il suo “stile di vita” anche agli occhi dell’oscurantismo franchista con cui peraltro l’artista non esita affatto a scendere a patti. Il secondo è il protagonista di un modo di porsi al pubblico – con l’immancabile contorno di pianoforti a coda candidi, candelabri, tendaggi di (finto) broccato – ben addomesticato, che incanta anche le casalinghe del Mid West.

In altri casi invece, nella scelta della pelliccia al maschile potere, vanità ed ego ipertrotrofico si sommano, con risultati che lasciano quantomeno perplessi e toccano le figure di leader dell’establishment più consolidato ed immobilista, anche se progressisti e rivoluzionari per auto-proclamazione: dal Maresciallo Tito a Breznev.

Ed è impareggiabile la parodia che di queste figure dà lo straordinario Gino Cervi nel ruolo di Peppone, in visita a Mosca, cuore del “paradiso socialista”. In sintesi: se esiste “Venere in pelliccia” – ed esiste, non vi sono dubbi –, esiste anche… “Marte in pelliccia”. Eccome! Giorgio Re

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ALL AROUND THE WORLD

Non neghiamolo: vestire sempre e soltanto “comme il faut” un po’ annoia: completo e cappotto impeccabili, camicia “giusta”, colori eternamente sobri, fantasie sì, ma canoniche – Principe di Galles, pied de poule, al massimo tartan; polo e pull vivaci solo nel tempo libero…Per fortuna già da decenni questo imperativo categorico ha smesso di essere tale.

La rottura si compie sostanzialmente nell’era beat. Tutti ricordano George Harrison con la camicia indiana coloratissima – la “kurta” – o David Bowie nella fase glam rock. Magari non sono modelli di riferimento determinanti per l’abbigliamento comune, ma di certo conservano una salda presenza nell’immaginario collettivo.

Al “rischio monotonia” la moda offre da sempre una preziosa via d’uscita: la capacità di guardarsi intorno, considerando altre culture, altri stili di vita, altri paesaggi, al di là di ogni possibile limite spazio- temporale, ispirandosi a tutto ciò e facendo man bassa non solo di fogge alternative, ma soprattutto di colori, decori, fantasie, non necessariamente connessi all’abbigliamento, ma magari anche agli stili architettonici – Art Decò in primis – o a più svariati manufatti, dai tappeti alle carte da parati, oppure ancora alla flora e alla fauna.

A parere di chi scrive è quindi improprio parlare di moda etnica. Semmai si può ragionare sul concetto di “moda globale”, ovvero di una moda per così dire “mondo-centrica” che consente allo stile di essere vivace e variegato. E stiamo parlando di un concetto di moda che ora è più forte che mai ed ha davvero sconfitto l’obbligo alla sobrietà. 

Come si è detto, è da sempre che la moda sa che esiste un’alternativa al rigore a tutti i costi. E’ dall’epoca di Marco Polo che si conosce la stupefacente ricchezza, per nulla monocolore, di una civiltà avanzatissima come quella cinese. Prende così avvio il traffico di materie pregiate, tessuti inclusi, verso l’Occidente. E prima ancora, Alessandro Magno, pur educato da Aristotele, è pur sempre il sovrano del Regno di Macedonia, rozzo e pastorale, lontano miglia e miglia, non solo geograficamente, dalla superba Atene.

Ma Mégas Alexandros scopre il vero sfarzo solo quando si imbatte nell’opulenza languida e tutta orientale dell’Impero persiano. Più tardi i conquistadores spagnoli, una volta che l’Europa accetta l’idea che il mondo non finisce alle Colonne d’Ercole buttandosi a capofitto nel “descubrimiento” delle presunte Indie Occidentali, rimangono ammaliati dalla raffinatezza degli Aztechi, dei Maya, degli Incas. Senza per questo esimersi dallo sterminare milioni e milioni di indios.

Più pragmatici, gli Inglesi, colonizzando l’India ed i Paesi limitrofi, evitano mattanze apocalittiche. Accentuano e rendono invece sistematiche non solo l’importazione di stoffe rare verso la madrepatria, ma anche l’attitudine da parte di tutti gli Europei a considerare bello ed affascinante ciò che giunge da lontano, ciò che è esotico.

Senza operare alcuna differenza tra quello che arriva da civiltà già notoriamente ricche –l’India, appunto – e ciò che al contrario ha origine da società considerate semi-barbare, se non ignorate del tutto, come quelle dell’Asia Centrale. Per concludere: insieme a molti altri, i motivi kilim o ikat sono presenti in una parte considerevole delle collezioni attuali. Piacciono, divertono e permettono di vestirsi trasmettendo una sensazione di libertà, di vitalità, di divertimento.

Tirando le somme, la moda “mondo-centrica” – anche se vissuta a complemento di quella occidentale con i suoi canoni che meritano il rispetto di sempre – è una grande conquista. A tutto vantaggio delle valenze dell’eleganza rispetto all’individualità di ognuno di noi, alla nostra personalità, alle chance di interpretazioni dello stile. Giorgio Re

Don’t deny it: … Continua a leggere →

GENTLEMEN IN TECHNICOLOR

Ai signori uomini colori e fantasie sono sempre piaciuti. Ne hanno fatto a meno per secoli, volendo invalidare i diktat, sfarzosamente caleidoscopici, in fatto di eleganza che l’aristocrazia imponeva dall’alto e dunque per attestare il primato della nuova classe leader. Le “stravaganze” cromatiche hanno conservato uno spazio, ma assai limitato, nei dettagli: panciotti, cravatte e pochette. Del resto, le “altre” culture – indiana, o cinese, o giapponese – non hanno mai rinunciato al colore, per motivi che prescindono dalla vanità, rimandando invece a ragioni di rappresentanza, ruoli ricoperti nelle gerarchie di potere, classi di appartenenza.

Tutto ciò valeva nell’Europa pre-borghese: colore uguale potere, ma anche ricchezza e sua ostentazione. Tingere le stoffe, con le sole risorse disponibili un tempo – quelle naturali – un tempo era costosissimo, dunque nel Basso Medio Evo e nel Rinascimento i farsetti a più tonalità, come le calzamaglie a bande, erano privilegio di pochi. Si è già parlato del connubio tra moda e arte, che rimanda a pieno titolo anche ad un rinnovato gusto per il colore, in relazione alle avanguardie del primo ‘900: Futurismo, Dadaismo, Costruttivismo. 

Lo stesso si può dire del cinema: basti pensare a capolavori come “Blow up” o “Arancia Meccanica”. Ma va aggiunto che un inno vero e proprio al technicolor è arrivato con la Pop Art, con le esperienze di Roy Lichtenstein e di Andy Warhol – che generano poi quella di Basquiat e non ignorano quella precedente di Matisse -, con le loro dosi ben calibrate di “sberleffo” (pensiamo ai ritratti di Mao by Warhol), di aderenza ad una visione del mondo più disinvolta, ma anche con un’abilità nel gestire in modo inedito la relazione tra arte da un lato e potere in costante crescita del marketing, produzione di massa e approccio consumistico all’arte stessa dall’altro. 

E qui si giunge a sfiorare un ambito che vale la pena di focalizzare: il potenziale ludico, in verità senza tempo, del colore. Pensiamo agli attori delle commedie di Plauto, ai guitti delle compagnie girovaghe, ai giullari, ai clown, alle figure della carte da gioco, per arrivare, nel secolo passato, ai personaggi dei cartoon. I fumetti sono diventati presto arte e cultura insieme, una cultura facile, “popolare” se vogliamo, fruibile senza difficoltà. E’ un mondo popolato di eroi che garantiscono identificazione ed evasione insieme, appealing perché invincibili, ma anche perché coloratissimo ed immediato nella sua potenzialità di attrazione.

L’elenco dei modelli di riferimento è infinito. C’è innanzitutto la sterminata produzione di Walt Disney o di Hanna & Barbera (insuperabile il look di Fred Flintstone…), ma c’è, soprattutto, l’esercito dei “buoni in uniforme”: Capitan America, Superman, Batman e Robin. In uniforme sì, ma sempre multicolore, tanto improbabile quanto irresistibile. Senza scordare il surreale, impareggiabile gioco di colori dell’italianissimo Jacovitti. 

Il presente parla la lingua della pluralità, con facoltà di esercitare il libero arbitrio da parte di chi sceglie uno stile piuttosto di un altro. Colori,fantasie, disegni ci sono e sono graditi. Con un valore aggiunto da non ignorare: quello dell’ironia e del divertissement personale nel vestire. Talvolta, soprattutto in passerella, tutto è un po’ “osato”. Nulla però è diktat. In altre parole, continuano ad essere eleganti un bel cappotto cammello e/o un completo a Principe di Galles. Ma neppure questi ultimi sono obbligatori, neppure per un un meeting di lavoro. Non solo: il neo-technicolor ha spezzato la dittatura minimalista/modaiola del nero tout court. Garantendo flessibilità e opzioni di mix interessanti: la giacca caleidoscopica si può portare sulla maglia o sul pantalone monocolori e viceversa. Ci pare poco? Giorgio Re

Gentlemen have always … Continua a leggere →